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PRESS/Tletter n.45-46-47/2012

19 Dic 2012

CRONACHE E STORIA – SETTEMBRE-OTTOBRE 1962

 

“Questa Biennale è fatta da una cultura ufficiale, che non è retriva né tendenziosa, ma si preoccupa piuttosto dell’equilibrio dei propri giudizi che del rilievo esatto della situazione.

Si crede che i fatti diventino storici decantandosi nel tempo. Invece il valore, la portata storica di un evento si determina nell’istante del suo accadere e si misurano nel mutamento di una situazione data.

Non si evita il trauma della flagranza……

Chi conosca la situazione dell’arte, sa che essa è piena di contraddizioni; ma le contraddizioni non fanno confusione, creano dialettica e aiutano a capire; e sono proprio quest’ultime che danno la misura esatta della drammaticità della situazione.

Sarebbe ingiusto accusare gli esperti di aver messo insieme una Biennale retrograda o reazionaria.

Il loro errore è quello della gran parte della cultura moderna: l’errore di credere che la flagranza dei fatti del giorno sia cronaca e non storia o che storia siano soltanto gli eventi contemplati e studiati e non quelli che, umanamente, sono vissuti e sofferti.”

Questo giudizio, scritto cinquanta anni fa, del Professor Giulio Carlo Argan a chiusura della XXXI Biennale d’Arte, potrebbe associarsi benissimo all’ultima Biennale di Architettura curata dall’Architetto David Chipperfield.

L’intento del curatore era di far "riflettere sul rapporto fra architettura ed ecologia, architettura e tecnologia, architettura e urbanistica, per rimediare allo scollamento tra architettura e società civile'' e di ''stimolare gli architetti a reagire alle prevalenti tendenze professionali e culturali del nostro tempo che tanto risalto danno alle azioni individuali e isolate”.

Ognuno ha dato le proprie risposte, chi calzanti, chi decise, chi fuorvianti, chi referenziali, chi asfittiche e chi “perché mi trovo qui”.

L’unica cosa emersa è che le idee comuni e condivise non costituiranno mai la base di una cultura architettonica, perché difficilmente gli “archistar” scenderanno dal piedistallo dove si sono posti incuranti del profondo stato di crisi culturale, economico e sociale.

Come suggeriva l’Argan, sarebbe bastato presentare quello che accade oggi in giro per il mondo: l’attualità, bella o brutta, entusiasta o deprimente, comprensiva di tutte le relative contraddizioni; soprattutto quelle capaci di stimolare la dialettica e quelle che ci permettono di comprendere la drammaticità della situazione attuale.

Lavori simili a quelli di Alejandro Aravena in Messico, alle esperienze dei francesi di Atelier d’Urbanism Autogérée, al “fiore” solare a basso costo disegnato dall’artista Olafur Eliasson, alla costruzione indiana di Anupama Kanduo o al padiglione giapponese per la ricostruzione post-tsunami curata da Toyo Ito sarebbero bastati a farci comprendere l’oggi, il costruire in tempo di crisi e l’edificare per la gente.

E invece tanti hanno continuato ad auto presentarsi percorrendo, come terreno comune, alcune condivisioni di temi simili o peggio l’autoreferenzialità del proprio linguaggio.

Alla prossima…….

Dell’edizione della Biennale del 1962 ci resta comunque l’inaugurazione del padiglione dei tre paesi scandinavi che l’architetto norvegese Sverre Fehn costruì dopo aver vinto il concorso del 1958 e l’allestimento di Carlo Scarpa pensato per “contestare” l’ingresso monumentale del padiglione centrale.

Il padiglione del Norvegese Fehn, frutto del concorso a tre con lo Svedese Anshelm e il Finlandese Reima Pietila, è uno spazio essenziale, permeabile allo sguardo e privo di separazioni fra interno ed esterno.

L’architetto riuscì a trasformare la luce mediterranea di Venezia nella luce omogenea e uniforme del nord mediante un doppio ordine di travi sovrapposte, dello spessore di solo 6 cm alte un metro e con un interasse di 52.3 centimetri.

In questa trama la luce veneziana restava intrappolata anche durante il solstizio estivo e si  impediva ai raggi solari di penetrare in maniera diretta nello spazio espositivo.

Ancora oggi il fascino del padiglione resta immutato e vi si entra sempre molto volentieri anche quando, raramente, il livello delle mostre dei paesi scandinavi è scadente.

L’allestimento di Scarpa era invece confinato nell’atrio del padiglione Italia; l’architetto mediante una serie di blocchi murari cercò di rendere “umana” la sovradimensionata entrata al padiglione.

Grazie all’allestimento Scarpiano si aprì il dialogo sulla necessità di rifare questo edificio sgraziato e monumentale.

Ci vollero altri ventisei anni per decidere di ri-affrontare il tema e con la biennale del 1988 fu indetto un concorso nazionale a inviti per ridisegnare il nuovo padiglione: tra i dodici progettisti invitati Anselmi, Canella, De Feo, Gabetti/Isola, Grassi, Gregotti, Natalini, Nicolin, Polesello, Purini e Venezia fu scelto il progetto di Francesco Cellini, Nicoletta Cosentino e Paolo Simonetti.

Il progetto era contraddistinto da un sistema di mura parallele che si alternavano in moduli grandi e piccoli ricreando la struttura tipica di Venezia; alla ripetitività di questa scansione gli architetti giustapposero la vasta cavità lenticolare che, interrompendo il perimetro, segnava il nuovo ingresso.

Mentre ci vollero solo quattro anni dal concorso alla realizzazione per il padiglione di Sverre Fehn, per quello italiano, dal 1988, sono passati, invano, altri ventiquattro anni e si sono susseguite altre dieci biennali………

Se nel 1962 decidevi di comprare il libro sull’”Architettura del sei e settecento a Venezia” di Elena Bassi spendevi 7.500 lire……….pardon 3,87 euro…….

 

CRONACHE E STORIA – NOVEMBRE 1962

 

Nel 1962 era emersa, durante un dibattito televisivo sugli spazi verdi, una lamentela sulla mancanza di queste aree nelle città italiane.

Si erano elogiati i giardinetti striminziti che circondavano le casette unifamiliari degli sterminati sobborghi americani e inglesi e si erano riprodotti fino a sazietà i parchetti ritagliati nei quartieri olandesi o svedesi con i soliti laghetti, le serpentine, gli scivoli e i quadratini di rena.

Ci si cominciò a porre alcune questioni: “Crediamo davvero che la città debba trasformarsi in un amalgama di giardinetti? O che sia formativo intellettualmente per i ragazzi e per i bambini questo evadere dall’organismo urbano?”.

L’alternativa, in quegli anni, l’aveva indicata, al solito, Le Corbusier, il più coerente oppositore delle città-giardino con le sue unità di abitazione di Marsiglia, Berlino e Nantes.

La città era tutta libera, tutta disponibile, bastava elevarsi dal piano terra al livello delle terrazze che coprivano gli edifici: spazi immensi, vari e soprattutto salubri in quanto lontani dal traffico.

Bastava liberare le terrazze dai cassoni dell’acqua, dagli stenditoi, dalle baracche e dagli ingombri inutilizzati; attrezzarle per il gioco dei bambini, con alberi e tappeti verdi, con piani inclinati e pareti ondulate, con piscine e scivoli architettonici in modo da offrire la possibilità di giocare in un senso consono alla città, fuori da ogni vano tentativo di surrogare la campagna.

Si poteva attuare un simile programma nel 1962?

Era certamente possibile; bisognava stimolare la ricerca, fornendo esempi concreti su come attrezzare l’esistente.

Si poteva tentare di “istituzionalizzare” la trasformazione delle terrazze, specialmente negli anni sessanta, quando gli spazi liberi nella città con la ricostruzione del dopoguerra, cominciavano a scarseggiare.

Se questo era il quadro degli anni ’60, noi oggi possiamo rilevare questi sviluppi:

-le terrazze sono rimaste uno spazio praticato solo da antenne e parabole;

-non è ancora terminata la ricerca di quelle poche aree degradate o abbandonate;

-quando le aree sono individuate procedere a recuperi non è più sostenibile.

Per suffragare questa tesi basta citare la ventennale epopea dei “PVQ - Punti Verde Qualità” del Comune di Roma.

Approvati dalla giunta del sindaco Rutelli sono giunti, si fa per dire, sino a noi con costi per la collettività a dir poco imbarazzanti.

Dei quaranta PVQ progettati nel 1995, per una complessiva area di 400 ettari (l’equivalente della somma di Villa Borghese, Villa Pamphili e Villa Ada….), ne sono in funzione solo diciassette.

Conoscendo la gestazione dei progetti romani, quest’aspetto sarebbe marginale se raffrontato al quadro economico pensato per la realizzazione; con leggerezza, o forse con complicità, il comune firmò, al tempo, 600 milioni di fideiussioni a garanzia dei progetti, non tenendo conto dell’italico costume dello scarica barile.

Oggi che lo scandalo dei PVQ è scoppiato al comune, e quindi alla collettività, sono rimasti i mutui inevasi e aree ancora più degradate e inutilizzate.

E’ lecita la domanda: perché ci complichiamo sempre la vita?

Ci conosciamo, e sappiamo che se dobbiamo ottenere un risultato ci ostacoliamo da soli; tanto vale illuderci che raggiungeremo gli obiettivi passando attraverso macchinosi congegni anti economici messi in piedi allo scopo.

Se la soluzione è dietro l’angolo noi, andiamo sempre dall’altra parte……

Nel fascicolo di novembre sono presentati i premi IN/ARCH e il premio nazionale, riservato a opere realizzate, fu assegnato al complesso direzionale, industriale e residenziale della società Olivetti a Ivrea.

Il premio fu assegnato all’intera attività architettonica dell’Olivetti riconoscendo l’acume e il coraggio con il quale questo “committente”, e in particolare Adriano Olivetti, scelse in trent’anni i nomi migliori dell’architettura italiana per realizzare i propri edifici: Figini e Pollini, Gardella, Nizzoli, Bottoni, Quaroni, Ridolfi, Albini, BBPR, Vittoria Cosenza, Porcinai, Zanuso, Scarpa, Gabetti e Isola, Cappai e Mainardis, Magistretti e Scarpa.

Olivetti fu un committente che riuscì ad adempiere la sua vera funzione storica, che non era di fidarsi dei valori confermati, conclamati o magari soltanto per pigrizia comunemente accettati, ma di promuovere la ricerca di nuovi valori e di forme nuove.

Chiedeva all’architettura di recuperare il valore civico della propria finalità, di essere capace di organizzare la città come luogo d’incontro sociale, come struttura di comunicazione e confronto culturale.

Come rilevato dalla mostra realizzata dall’Architetto Luca Zevi nel Padiglione Italia, durante la 13 mostra internazionale di Architettura, la strategia di Olivetti appare ancora oggi innovativa, proiettata verso il futuro e concretamente finalizzata al miglioramento complessivo della società. Rimpiangere queste figure illuminate non sarà mai abbastanza….

Se nel 1962 decidevi di comprare una parete estensibile Diviflex per moltiplicare,dividere e risolvere ogni tipo di spazio spendevi 35.500 lire al mq……….pardon 18.33 euro al mq…….

 

CRONACHE E STORIA – DICEMBRE 1962-GENNAIO 1963

 

Nel 1962 con la “nota aggiuntiva”alla “Relazione generale sulla situazione economica del paese”, l’On. Ugo La Malfa conferì alla politica del centrosinistra una prospettiva destinata a caratterizzare lo sviluppo della società italiana nei decenni successivi.

L’elevatissimo ritmo di accrescimento raggiunto dall’economia italiana era accompagnato dal permanere di situazioni regionali e sociali arretrate che l’espansione del sistema non aveva alterato.

Il miracolo economico accentuò la differenza tra le condizioni di vita del Nord e del Sud determinando, tra l’altro, un pauroso esodo dalle campagne che, se era in larga misura inevitabile generò la trasformazione dei terreni agricoli.

L’economia di mercato assicurò un aumento del reddito globale e il pieno impiego lavorativo, cercando di risanare gli squilibri regionali e di risolvere i problemi collettivi.

L’aumento e il miglioramento dei consumi pubblici rappresentarono una delle forme più desiderabili di aumento del reddito reale e del miglioramento del tenore di vita, mentre l’espansione dei consumi pubblici rispetto ai consumi privati rappresentò il segnale definitivo del raggiungimento del benessere collettivo.

La programmazione economica delineata dalla “nota aggiuntiva” coinvolse apertamente anche l’opera degli architetti e degli urbanisti chiamati a dare risposte sulla congestione di alcuni centri abitati e il conseguente spopolamento di alcuni territori.

E se è vero che spettò alla politica economica il compito di indirizzare la localizzazione dei nuovi insediamenti, è altrettanto vero che gli architetti non seppero raccogliere al meglio l’enorme possibilità che gli stava passando sotto le mani.

Negli anni ’60, la programmazione economica intesa, come incentivo di libertà non poteva non raccogliere il consenso e l’adesione di tutti quelli che nel decennio precedente, avevano assistito passivi alla caotica e sterile politica degli investimenti pubblici e mentre gli imprenditori cercavano di organizzare il lavoro, i lavoratori era entusiasti nel dare il loro contributo.

Oggi il lavoro è una chimera, di programmazione ne esiste sempre di meno e i singoli contributi sono affievoliti da una lenta e inesorabile depressione.

Si preferisce sempre di più vivere alla giornata cercando di risolvere i problemi solo quando si manifestano; oggi non si programma più nulla e si aspetta che cambi qualcosa.

Che cosa? Aspettiamo il nuovo corso affidandoci al “solito stellone”……..

Architettura.

Nel doppio fascicolo di dicembre-gennaio sono presentate alcune superbe realizzazioni:

-il centro contabile di Napoli opera dell’Architetto Carlo Cocchia, concreto esempio di architettura razionale in cui due corpi rettangolari disposti a T che si innestano tra di loro; la soluzione formale, arricchita dalla modulazione della facciata, risulta discretamente vibrante.

-il negozio Olivetti a Parigi opera degli Architetti Franco Albini e Franca Helg, raffinato esempio di architettura d’interni, sulla scia di quelli già realizzati da Carlo Scarpa a Venezia e Ignazio Gardella a Dusseldorf. L’interno del negozio fu caratterizzato da eleganti montanti lignei che sorreggevano ripiani triangolari; la loro combinazione provocava una moltiplicazione dello spazio generando una gamma ripetuta di cellule modulari tridimensionali.

-la casa sul mare a Long Island dell’Architetto John Johansen, splendida realizzazione caratterizzata dalla contrapposizione tra la volumetria esterna, scultorea, rugosa e introversa e la disposizione interna in cui gli angoli sfuggenti e gli spazi passanti determinano una continuità labirintica centrifugata dal perno centrale del focolare.

-il terminal TWA a New York opera postuma di Eero Saarinen, celebrata sintesi di un edificio inconfondibile, memorabile e capace di esprimere il fascino del volo e del movimento attraverso il suo elevato dinamismo; le originali forme che lo compongono generano, ancora oggi, stupore.

Tra le tante opere costruite, e contrariamente alla linea editoriale della rivista di presentare solo edifici costruiti, viene divulgato il progetto di concorso per la realizzazione del grattacielo Peugeot opera dell’Architetto Maurizio Sacripanti.

Il progetto, che fu giudicato dalla commissione meritevole di una sola menzione, era originale e brillante e, dal confronto con i vincitori, ne usciva rivalutato a dismisura; la rivista, pubblicandolo, cercò di ripagare il torto subito.

Il grattacielo era organizzato come un quartiere in verticale, con una torre centrale per servizi e ascensori sui quali s’innestavano i blocchi di uffici con altezza variabile da uno a dieci piani.

Questi blocchi variabili erano capaci di generare una vibrante tessitura esterna caratterizzata da continui vuoti occupati da giardini pensili.

A sottolineare ancora di più le facciate fu l’apposizione di lamelle frangisole regolabili, connesse agli infissi, che oltre a garantire l’oscuramento erano capaci, con il loro movimento, di creare scritte pubblicitarie.

Il risultato fu una soluzione non solo estremamente suggestiva, ma altamente integrata: volumi funzioni, struttura, prefabbricazione e pubblicità determinarono un tutto coerente, aggressivo, figurativamente vibrato ed esaltante.

Le stupende prospettive di Mario Mafai sono ancora lì a testimoniarlo…….

Se nel 1962 decidevi di comprare il libro di Filiberto Menna su Mondrian, edito dalle Edizioni dell’Ateneo, spendevi 2.500 lire ……….pardon 1.29 euro……..

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