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2009

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Venerdì, 25 Dicembre 2009 00:00

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Pubblicato in XXL SKETCHES
Martedì, 08 Dicembre 2009 00:00

PRESS/Tletter n.18-19-20/2009

CRONACHE E STORIA-NOVEMBRE 1959

 

L’editoriale del mese di novembre dell’Architetto Bruno Zevi è imperniato sul vernacolo e sui dialetti in architettura.

Prendendo spunto da una riflessione apparsa sulla rivista “il menabò”, diretta da Italo Calvino e Elio Vittorini, riguardante la situazione della letteratura italiana, l’astuto direttore, sostituendo alla parola letteratura la parola architettura, fotografa lo stato delle “arti italiche”.

“La crisi dell’architettura in Italia sembra essere più che altro, oggi, di deficienza critica: tanto da comportare il compiacimento di “non dare scandalo” persino in coloro che pur professano di darlo, il compiacimento della mancanza di tensione, il compiacimento della mancanza di rigore, il compiacimento duplice delle soluzioni da “uffici studi” e delle spiegazioni neo-crepuscolari e il compiacimento che c’è del buono anche nel conformismo.”

Parallelamente alla crisi dell’architettura-letteratura, si è sviluppata una sempre crescente curiosità per il dialetto; la rivista, attraverso pubblicazioni di alcuni esempi, ha contribuito alla ricerca sull’edilizia indigena, rurale, anonima e vernacolare, ma si è fermata in tempo, quando attraverso l’analisi storica, sociologica e figurativa dei complessi ambientali si rischiava di convalidare il pregiudizio categoriale dello “spontaneo”.

Credere alla consistenza di questa ipotetica ”architettura spontanea” e alla sua strumentalità come fonte di ispirazione e imitazione è un’operazione aberrante almeno quanto il copiare gli stili maggiori o “aristocratici”.

“Il movente stesso della ricerca nell’architettura minore da parte di molti architetti moderni è illusorio: il razionalismo era in crisi, i principi compositivi cubisti tradivano i loro meccanicismi, e allora gli architetti si sono volti alle forme indigene per recuperare un legame tra i loro prodotti e l’ambiente, per agganciarli alla realtà. Miraggio generoso e sincero in rari casi, ingannevole sempre.”

Nel fascicolo di novembre vengono presentate le opere dell’architetto Enrico Tedeschi, singolare professionista che per vari anni ebbe uno studio insieme a Liugi Piccinato, Gino Calcaprina e Silvio Radiconcini, fu tra i primi direttori della mitica rivista “Metron-architettura” e partecipava attivamente alla vita organizzativa degli architetti nell’Associazione per l’Architettura Organica (A.P.A.O.).

Un bel giorno gli offrirono di partire per Tucuman in Argentina e accettò: e lo fece soprattutto per studiare e fare ricerca in architettura con calma, al di fuori della nevrosi di Roma.

Il risultato di questa emigrazione (…….antesignano esempio di “cervello in fuga”) è riassunto nell’elaborazione di quattro case che sono espressione di un architetto che ha raggiunto una sicurezza psicologica e morale, e progetta senza affanni e senza stimoli di moda.

In questa conquistata indipendenza ha trovato il “tempo” adatto alla sua saggezza e agisce per sua iniziativa e non perché costretto da altri o dalle cose.

Il suo motto, come diceva un antico filosofo, era: “Vuoi essere felice? Vivi ignorato”.

La sua parabola ci dimostra, ancora una volta, la smisurata voglia di fare architettura pura, senza troppi vincoli, senza troppe costrizioni burocratiche e lontano da pressioni meramente economiche, in quello che è per tutti l’obiettivo massimo: riuscire a fare limpidamente questo meraviglioso mestiere.

Oggi, come allora, per farlo devi, purtroppo, trovare la tua “Tucuman” al di fuori dell’Italia……  

All’interno della rivista vengono presentate due opere dell’architetto svizzero Otto Glaus, allievo, nello studio di Rue de Sevres, di Le Corbusier.

Nelle due opere tipologicamente diverse, l’aereoporto di Agno presso Lugano e il Palazzo Ferrari a Chiasso, risultano evidenti alcune differenze nonostante la coerenza della tematica figurativa.

La volontà di “far parlare” plasticamente la materia si manifesta con efficacia ad Agno dove il processo compositivo è chiarissimo: si parte da un prisma puro, se ne corrodono le superfici fino a ridurle profili di una scatola ormai non più consistente; negli squarci così ottenuti, i volumi emergono e rientrano, s’incastrano i vari materiali e i piani si animano con continue sorprese.

La condizione del palazzo Ferrari è assai più vincolata. Il blocco, innestato nella maglia tradizionale urbana, non può essere infranto. La ricerca della plastica profondità appare perciò più artificiale avvalendosi dello sfalsamento dei moduli delle aperture e di qualche espediente decorativo; la composizione formale del blocco risulta comunque molto brillante sebbene, il non arretramento dei pilastri al piano terra, impediscano “l’effetto sospensione”.

In continuità con i precedenti fascicoli, viene pubblicato l’ultimo progetto elaborato da Frank Lloyd Wright il “Donahoe triptych” nel deserto dell’Arizona vicino a Phoenix, non molto lontano dalla sua casa-scuola di Taliesin West.

La casa è composta da due blocchi edilizi minori, riservati ai figli, connessi alla casa principale mediante ponti di “muratura del deserto”, il tutto meravigliosamente inserito nella natura.

L’ultimo periodo della creatività Wrightiana è caratterizzato da due tipi di case quelle a pianta circolare o ellittica e quello lineare: il”trittico” compendia i due sistemi compositivi, parte da un nucleo circolare, lo espande e lo centrifuga in varie direzioni secondo i moventi dello “in-line plan”.

Se nel 1959 compravi il libro sulla Storia dell’Architettura Europea scritto da Nikolaus Pevsner, e tradotto da Enrica Labò, spendevi 4.500 lire ……………………………………………………….pardon 2,32 euro………

 

CRONACHE E STORIA-OTTOBRE 1959

 

Wright è morto ma ancora fa parlare di se come è ovvio, come è naturale

E lo fa attraverso la voce dell’ultima sua donna Olgivanna Lazovich Milanoff Hinzeberg, aristocratica serba di origini montenegrine.

Il suo messaggio, letto durante la cerimonia della posa della prima pietra della chiesa greco- ortodossa di Milwaukee, oltre a rimarcare la grandissima eredità architettonica e a garantire, attraverso la fondazione-comunità di Taliesin, la continuità organica degli insegnamenti del maestro,

terminava con una personale constatazione: ”L’abbiamo perduto, ma con le nostre risorse interiori possiamo unirci al suo spirito e forse comprendere che la vita è un’eco della morte”.

Oggi, rileggendo il messaggio a distanza di cinquanta anni, possiamo tirare due tipi di conclusioni:

la prima deriva dalla constatazione che la grande comunità di Taliesin non ha sfornato eredi mentre la seconda, invece, sottolinea che la venerazione del grande architetto è ancora molto viva.

I dubbi sulla continuazione del Verbo del Maestro si erano manifestati da subito, perché la storia ci ha insegnato che proseguire l’azione di un genio è stato sempre difficile, se non impossibile.

Fu così per Michelangelo, per Brunelleschi o per Borromini, che, seppur non istituirono una “scuola”, non ebbero discepoli pronti a continuare il loro lavoro.

Successe la medesima cosa a Frank Lloyd Wright che, nonostante la creazione di una comunità come Taliesin, non ebbe la soddisfazione di vedere continuato il personale solco tracciato nella storia architettonica.

E non ebbe la fortuna di sapere che, per dirla con le parole del suo più grande esegeta italiano, l’architetto Bruno Zevi, “in qualsiasi momento, sentendomi mancare, posso rivolgermi a voi, dicendo continua Tu,Tu,Tu…”.

In questi ultimi anni, invece, si assiste alla riscoperta, non più dell’architetto, ma dell’uomo Wright, e lo si fa attraverso la rilettura della sua vita più intima e privata.

Gli ultimi romanzi usciti, “Mio amato Frank” di Nora Horan e “Le Donne” di Thomas Coraghessan Boyle, ci svelano l’altra faccia del genio americano.

Questi testi ci “normalizzano” la figura mitologica dell’architetto americano riportandolo a una  dimensione più “umana”.

Ed è soprattutto attraverso le parole di TC Boyle, singolare scrittore che ha il privilegio di vivere nella George G. Steward House progettata da FLW nel 1909, che si chiarisce quali siano state le protagoniste della vita del genio Americano: non le sue famose architetture ma bensì le quattro donne che ha successivamente e/o contemporaneamente avuto.

TC Boyle rilegge al contrario la vita di Frank, partendo dall’ultima donna Olgivanna, quella che avrebbe voluto, più di tutti, dar seguito alla comunità di Taliesin.

Olgivanna fu assunta, per non destare sospetti, come governante della famiglia Wright, che al tempo era composta da Frank e dall’ultima moglie Maude Miriam Noel.

Ben presto, però, rimase incinta del maestro, ridestando tutta la rancorosa follia di Miriam, la donna morfinomane che, anni addietro si era materializzata come la magica fata, tra le macerie in cui si era frantumata orribilmente la vita di Wright il 15 agosto del 1914.

In quella maledetta giornata il primo vero grande amore dell’appassionato Frank, Mamah Borthwick Cheney, fu uccisa brutalmente, insieme ad altre sette persone, dal cameriere.

E fu per Mamah, moglie di un ingegnere che gli aveva commissionato la Edwin H. Cheney House, che lasciò la prima moglie Kitty Tobin, una classica casalinga che gli aveva dato sei figli in dieci anni.

La vita dell’uomo Frank fu senza dubbio più articolata della produzione dell’architetto Wright……

Nella rivista vengono presentate due opere degli architetti Figini e Pollini: la fabbrica per Olivetti ad Ivrea e la casa in via Circo a Milano.

Ottimi professionisti, coscienziosi, accurati nel dettaglio, orgogliosi di far bene per le opere stesse più che per l’avvenire affaristico dello « studio », Figini e Pollini fanno parte di quella schiera di architetti che si sono opposti allo “stile” per favorire uno sviluppo concreto della città moderna senza rifugiarsi in astrazioni linguistiche.

Senza una civiltà urbanistica che fornisca gli spazi necessari per la vita diversa di questa nuova città; senza un respiro economico che fornisca mezzi finanziari adeguati alle nuove possibilità tecniche; senza una coscienza sociale che sappia rispondere agli angosciosi interrogativi dell'uomo d’oggi, è impossibile pensare all'architettura moderna nei giusti termini: se gli architetti non riescono a capire certe cose e a lavorare per esse, tanto vale lasciar che si trastullino con le “trovate decorative”.

Il 24 e il 25 di ottobre 1959, il ridotto del teatro Eliseo di Roma, ospitò il secondo convegno degli architetti italiani: aprì i lavori Pier Luigi Nervi, insieme a Sergio Musmeci, che parlò di nuove strutture e a Enrico Mandolesi che illustrò sui nuovi materiali; il pomeriggio parlarono del piano di edilizia scolastica italiana Ciro Cicconcelli e Vittoriano Viganò. Il giorno successivo, sul tema del novo piano regolatore di Roma, intervennero Luigi Moretti, Ludovico Quaroni e Federico Gorio.

Se nel 1959 ti compravi una macchina da scrivere Olivetti Lettera 22, oltre a dotarti di uno strumento utilissimo contribuivi alla crescita di quel miracolo italiano che si sviluppò intorno ad Adriano Olivetti uomo-simbolo del nostro paese (come ben ricordato, ultimamente, da Emanuele Piccardo nel bellissimo documentario che prende il nome da questa macchina da scrivere).

Comunque se decidevi di procedere nel sano acquisto spendevi 42.000 lire + I.G.E ……………………………………………………….pardon 21,69 euro + I.V.A…….

 

CRONACHE E STORIA-DICEMBRE 1959-GENNAIO 1960

 

Nelle rubrica “lettere al direttore” arriva una segnalazione riguardante la possibile demolizione delle Watts Towers di Los Angeles costruite a tempo perso da Simon Rodilla.

Ma chi era Simon Rodilla? Era un muratore nato a Roma nel 1879 e trasferitosi all’età di 12 anni a Los Angeles; cominciò a costruire sperimentalmente nel 1921 questo singolare edificio-scultura, che  vagamente ricordava le opere del genio catalano Gaudì.

La torre era costituita da una intelaiatura di acciaio, pietra e cemento lavorata a filigrana su cui erano intarsiati vari materiali di recupero quali fondi di bottiglia, cocci di porcellana e pezzi di vetro.

La torre manifesto dell’Hand-made tipicamente americano, sopravvisse alla demolizione e a violenti terremoti della falda di San Francisco per essere dichiarata monumento nazionale; Simon Rodilla, invece, morì nel 1965 all’età di 86 anni, povero, in disgrazia e del tutto indifferente alle sorti delle torri che ancor oggi portano il suo nome e sono il simbolo del distretto residenziale di Watts.

L’editoriale della rivista e’ incentrato sulla nascita dell’Istituto Nazionale di Architettura avvenuta sul finire del 1959; l’istituto nacque nella speranza di spezzare i cerchi corporativi che separavano ingegneri, architetti, costruttori, industriali, critici e cultori di architettura, lanciando un ponte tra produttori e consumatori. Doveva essere un luogo di incontro, di convergenze e di leali dissidi, tra economia e cultura, affinchè l’economia non restasse solo bruta speculazione e la cultura non servisse solo a consolare.

All’alba degli anni ’60, e precisamente il 26 ottobre 1959 alle ore 18,22, l’impostazione dell’istituto era definita: l’Istituto Nazionale di Architettura non doveva essere un‘impresa romantica per figli e nipoti, era per l’oggi, perchè tra 10 anni ci si senta più felici, più civili, più utili e fare l’architetto torni ad essere, per ciascuno, ragione di orgoglio.

Nel 2009 l’INARCH ha compiuto 50 anni….anni divisi tra il partito del fare ad ogni costo (a discapito della qualità) e il partito del non fare a priori (a favore della valorizzazione del “niente”), anni in cui si e’ scelto di eliminare la Direzione Generale per il Paesaggio, l’Architettura e l’Arte contemporanea dal Ministero dei Beni Culturali, anni in cui le gare d’appalto si vincevano col massimo ribasso a discapito della qualità architettonica, anni in cui i progetti di architettura erano visti come servizio e non come opera di ingegno……..anni in cui possiamo dire, con molte certezze, che fare l’architetto non è stato motivo di vanto……anzi……..

A volte ritornano……………Nell’ultimo numero della rivista olandese A10, nella rubrica “out of obscurity” viene presentato un edificio per uffici a Roma opera congiunta dello studio tecnico architetti Calini e Montuori e dell’Architetto Adalberto Libera; cinquant’anni prima la rivista L’Architettura cronache e storia presentò l’opera appena realizzata.

L’edificio sorge a via Torino in un lotto irregolare ad angolo con via Balbo e via Urbana; il momento creativo della composizione è da ritrovare nella geniale sintesi tra lo schema distributivo e lo schema strutturale con maglia triangolare.

Concettualmente l’edificio fu costituito da un  parallelepipedo compatto scavato verticalmente  all’interno per creare chiostrine, cavedi, tubi di aria e di luce; attorno a questi vuoti si aggrapparono tutti gli spazi di servizio consentendo di liberare i 4 fronti esterni che furono destinati agli uffici.

E fu all’esterno che si creò quella insuperata partitura orizzontale composta, con un misuratissimo accordo cromatico, dalle lamiere smaltate e dalle lamelle orientabili e sollevabili aventi funzione di brise-soleil.

Ancor oggi, passando sotto l’edificio, si respira la modernità lieve e vibrante di questa architettura che più di ieri si ambienta nel vecchio quartiere.

All’interno del fascicolo troviamo la presentazione di uno degli ultimi lavori di Richard J.Neutra, la villa Donald M. Cole a La Habra in California; ad accompagnarla un saggio dello stesso autore sottolinea le qualità di ascolto che ogni architetto dovrebbe avere prima di affrontare qualsiasi tema. E lo fa attraverso il paragone con il lavoro del dentista: egli deve visitare singoli pazienti, aprire bocche individuali, osservare denti, diagnosticare su personalissime cavità e appropriatamente riempirle. Questo dentista, mediante un accurato procedimento induttivo, riscontrerà denominatori comuni e determinerà scientificatamente ampi gruppi di controllo.

Così come il dentista, l’architetto dovrà progettare piccoli edifici individuali, tenendo conto delle singole problematiche, offrire valide soluzioni e trarre la forza per poter affrontare progetti di massa quali teatri, ospedali etc.

Essere educati a questo compito da fisiologo ci aiuterà ad affrontare qualsiasi tema di architettura al centro del quale ci sarà sempre l’uomo.

Come nel caso dell’unità di abitazione studiata dall’Architetto Renato Severino, una piastra orizzontale di dimensione 176 mt x 140 mt. poggiante su tre grossi pilastri, alti 25 mt., che contenevano gli impianti tecnici e meccanici, nonché le scale e gli ascensori di accesso.

Un approccio differente a quelli adottati nello stesso periodo, che svincolando dal terreno le abitazioni, contribuiva a riguadagnare lo spazio pilotis sottostante ad attuava quella continuità  spaziale e fluida, da sempre meta degli architetti.

La piastra conteneva 125 alloggi, tutti attrezzati con patio e terrazza-solarium, e poteva ospitare 800 persone; al centro della piastra c’erano i servizi comuni: spaccio,nursery, e palestre.

Se nel 1959 partecipavi al concorso anonimo per il monumento alla brigata Sassari, avevi tempo,per la consegna degli elaborati, fino al 15 aprile 1960, e in caso di vittoria guadagnavi 1.000.000 di lire…………………………………………………………………………………………………………….pardon 516,45 euro………

 

 

Pubblicato in XXL CHRONICLES

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