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2013

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Mercoledì, 10 Aprile 2013 00:00

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Pubblicato in XXL FLIPPER
Mercoledì, 10 Aprile 2013 00:00

PRESS/Tletter n.49-50/2013

CRONACHE E STORIA – MARZO 1963

 

Nel fascicolo di marzo 1963, tra gli editoriali in breve, ne troviamo uno di beffarda attualità:

“Si può insegnare architettura senza farla?”

Cinquant’anni fa la polemica del pieno impiego dei professori universitari si concluse con le prudenti decisioni, prese dall’Associazione Nazionale Professori Universitari di Ruolo, di effettuare un trattamento economico differenziato per i docenti che, volontariamente ed anche per un periodo di tempo limitato, sceglievano il pieno impiego.

All’epoca si riteneva assurdo pretendere che i professori rinunciassero per tutta la vita ad ogni attività extra-scolastica; come era dannoso, d’altra parte, impedire che, gli stessi, potessero dedicarsi esclusivamente agli studi.

Oggi dopo cinquant’anni e freschi dell’attualità del caso Peluffo, siamo ancora a discutere della norma che impedisce ai professori delle facoltà di architettura di esercitare la professione a meno che non scelgano il tempo parziale.

Per evitare inutili concorrenze, bisognerebbe fondere la figura del libero professionista con quella dell’accademico, determinando quella personalità, maestra nell’insegnamento e con indubbia capacità costruttiva.

A questo punto basterebbe garantirgli uno stipendio congruo, tale da impedirgli di cercare altrove altre fonti di guadagno, e impegnarlo per un periodo massimo di due anni, al termine dei quali può tornare alle sue attività precedenti.

Si eviterebbero carriere universitarie svolte da professori svogliati, incompetenze costruttive generate dal poco “impegno sul campo” e quel sottile equilibrismo economico svolto da molti per giungere ad una sopravvivenza accettabile.

Il tutto a favore degli studenti che d’incanto si troverebbero di fronte a figure professionali stimolanti, stimolate e preparate……………………..e non più quegli apatici professori che oltre alla scarsa capacità di insegnamento, sia pratico che teorico, non ti degnano neanche della loro presenza, tanto il posto è assicurato………

Ritorno a Villejuif.

Trent’anni dopo l’inaugurazione, la rivista ritorna su quello che può essere considerato il capolavoro del razionalismo francese di Andrè Lurçat: la “scuola-modello Karl-Marx”.

La scuola fu costruita a Villejuif, comune a circa un’ora da Parigi, in quella che oggi è diventata la banlieue, ma un tempo era un abitato disadorno, illustre solo per la lunga tradizione di lotte sindacali.

La municipalità Comunista la edificò per i figli dei lavoratori; trent’anni dopo i figli e i nipoti dei figli vi studiano e vi giocano ancora a loro agio perché l’insegnamento “attivo” non riflette solo l’indirizzo didattico, ma è inerente alla struttura architettonica della scuola.

Lurçat diceva: “La costruzione di una scuola pone all’architetto un problema che non è solo di ordine costruttivo ma anche di ordine pedagogico. Egli non solo deve conoscere i regolamenti in vigore, ma in egual misura deve conoscere la mentalità del bambino, il suo modo particolare di vivere e di considerare la vita. Analizzato ciò, il suo compito è poi di coniugare i diversi bisogni, psicologici e biologici, e di concretizzarli per mezzo dell’architettura”.

Spronato dal tema sociale della scuola pubblica in una periferia operaia e contadina, Lurçat concepì l’edificio di getto curandone l’esecuzione con una perfezione tale da non sbagliare nessun dettaglio.

Il risultato fu un capolavoro sia dal punto di vista espressivo che funzionale, riuscendo ad ottenere il massimo dell’efficacia con una concisione estrema.

E se per il mondo, questa scuola, rappresentò un testo fondamentale della modernità in architettura, per Lurçat, rappresentò, il canto del cigno di una carriera punteggiata in seguito da opere serie ma non più significative.

Anche dal punto di vista stilistico la scuola è rimasta isolata se è vero che non vi è traccia del suo linguaggio nelle costruzioni limitrofe; per inspiegabile atrofia spirituale anche gli architetti che hanno disegnato i nuovi edifici di VilleJuif vi sono passati davanti senza accorgersene; lo stimolo creativo generato dalla scuola si è andato affievolendo fino al silenzio.

Volendo riassumere la vicenda di questa scuola con un titolo potremmo usare questo: “Il preludio divenne il suo epilogo”.

Polemiche su Alvar Aalto.

In un saggio pubblicato pochi mesi prima l’architetto Luciano Rubino aveva analizzato la “Ricerca incompiuta di Alvar Aalto”; sul fascicolo di marzo gli rispose stizzito l’architetto Federico Marconi, che lavorava nello studio dell’architetto finlandese.

La critica, seppur dura, di Rubino non fu estemporanea ma suffragata da quella libertà di giudizio che, in un clima di critica encomiastica internazionale che circondava l’architetto finlandese in quegli anni, riusciva ad evidenziare quelle opere che, seppur fatte da un maestro dell’architettura, apparivano minori.

Rubino riconobbe sempre il valore lirico elevatissimo dell’opera di Alvar Aalto e lo fece in diverse pubblicazioni, ma non lesinò critiche, perché riteneva, giustamente, che “è ai Poeti che bisogna rifiutare l’indulgenza”.

Se nel 1963 compravi un pannello laminato Piriv, leggero, elegante e indeformabile, disponibile in 50 colori diversi,fabbricato dalla Laminati Pirelli Riv spendevi 850 lire ……….pardon 0,44 euro……..

 

CRONACHE E STORIA – APRILE 1963

 

Giovanni e Giuseppe - Dialoghi di architettura di Cesare Cattaneo:

“Giuseppe - m’è capitato una volta di abitare senza nessuna interruzione per molti mesi, in un luogo molto bello, per doni di natura e per provvidenze di moderna civiltà; dove però non c’era monumento antico di sorta, nemmeno un rudere, che andasse oltre la storia recente di un secolo o due…..Io ci vivevo benissimo, un’interessante vita di lavoro e di svago…Un giorno, dopo tanti mesi che non mi muovevo, capitai in una piazza antica, con la cattedrale romanica, un palazzotto del Comune e un altro palazzo della stessa epoca che girava sulle pareti della piazza.

Un piccolo centro monumentale, come ne trovi in tutte le città italiane, e anche se questo non era tra i più notevoli, era rimasto vergine da qualsiasi tipo di restauro.

Ebbi una scossa indimenticabile, mi parve di assaporare un cibo che da troppo tempo mi mancava, riuscii a misurare me stesso e le cose che intorno su una coordinata che avevo perduto.

Rimasi tutto il pomeriggio seduto su un sasso a guardare non so bene cosa, forse i secoli che rivedevo.

Giovanni - queste parole ti onorano, ma non vedo perché me le dici.

Giuseppe - perché vorrei che nei luoghi dove viviamo non devono mancare i monumenti del passato; la nostra cultura ha bisogno di un puntello materiale che reagisca sui sensi. Tu non sarai d’accordo: tu vuoi ripartire dalla tabula rasa…..

Giovanni - invece sono d’accordo…..soltanto dobbiamo dare a queste voci del passato la giusta quantità nel quadro complessivo delle nostre sensazioni: ma la moderna cittadina, senza pezzi antichi di sorta, era bella o brutta? Gli uomini che la abitavano l’avevano costruita in modo armonioso oppure avevano tempestato la terra con una grandinata edilizia?

Giuseppe - più grandinate che sintonia: quale città moderna non è così?

Giovanni - lo so: e dunque la tua gioia nella piazza duecentesca e’ bella e spiegata……d’un tratto ti sembra di aver trovato l’ordine della tua coscienza tra quelle pietre antiche

Giuseppe – perché mi dici che mi pare di trovarlo? Io credo di averlo trovato davvero.

Giovanni – probabilmente ti sbagli, e il merito che tu dai agli uomini del passato dovresti darlo alla patina del tempo……basterebbe fare pulizia e salterebbero fuori tutte le magagne: i conflitti fra i materiali che il tempo ti ha fatto sembrare deliziosamente amalgamati, le grossolanità ornamentali, gli incontri casuali e non risolti tra facciata e facciata, la povertà di fantasia degli schemi architettonici ricalcati malamente da qualche modello illustre e infine la superficialità delle soluzioni cosiddette “funzionali”, quelle che mettono in grado l’edificio di rispondere ai suoi scopi di ordine pratico.

Immagino che sia così, perché la profonda e autentica unità di atmosfera ottenuta in certi momenti splendidi dello spirito umano, è un’eccezione dei tempi passati non meno che dei tempi presenti.”

Questo dialogo è emblematico dell’approccio che dovremmo avere ogni volta che tentiamo di lasciare un segno nelle nostre città: pensare di imbalsamarle non è la via migliore come non lo è fare tabula rasa della storia.

In questi casi la troppa superbia così come la troppa conservazione genera mostruosità; così com’è mostruoso sollevare, nell’opinione pubblica, la certezza che ogni volta si tenta di fare architettura moderna in una città storica, si generano brutture.

Conoscere lo spazio in cui ci e’ concesso di agire e il tempo in cui si proietteranno le nostre opere vuol dire, di solito, fare buone architetture nel rispetto delle civiltà che ci hanno preceduto.

L’architetto, infatti, è l’unico personaggio che opera quotidianamente con quel materiale che non è solo mattone, solo legno o solo cemento ma quello che più di altri qualifica la sua opera e la vita di tutti: lo spazio.

Basterebbe affidarsi a figure di questo livello per garantirsi progetti di qualità…..se poi riusciamo pure ad affrancarli dagli interessi speculativi dei costruttori e dalle interessate direttive delle pubbliche amministrazioni chiudiamo il cerchio magico.

Nella rubrica “un libro al mese” dell’Architetto Sara Rossi è presentato il testo di Italo Insolera: “Roma Moderna un secolo di storia urbanistica 1870-1970”, pubblicato nella “Piccola Biblioteca Einaudi” nel 1963.

L'autore, partendo dagli ultimi anni del dominio pontificio e dagli entusiasmi che accompagnarono l'avvento della capitale, rievoca le contraddittorie realizzazioni dell'epoca umbertina, i difficili anni che seguirono la prima guerra mondiale, l'assurda politica urbanistica del ventennio fascista, per giungere, dopo il risveglio culturale, le speranze e i propositi dell'immediato dopoguerra, alla complessa e allarmante situazione, ancor oggi sotto gli occhi di tutti.

Con questo libro l’autore, morto la scorsa estate, riuscì, per la prima volta, ad appassionare e a coinvolgere la grande massa ai problemi urbanistici della capitale; il libro divenne un caso letterario, ebbe un successo di pubblico notevole e non restò confinato solo nelle librerie degli

architetti che lo assunsero a libro di testo nei corsi di urbanistica degli anni ’70-80-90.

Se nel 1963 compravi il libro spendevi 1.200 lire ……….pardon 0,62 euro……..

 

 

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