2013
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IRMA LA DOUCE
Irma La Douce T-shirts & graphics
PRESS/Tletter n.53-54/2013
#PRESSTLETTER#CRONACHE E STORIA – LUGLIO 1963
Nel 1963 terminava la costruzione dell’unità di abitazione di Halen, il vicino a Berna, opera degli Architetti dell’Atelier 5. Con questo progetto i cinque architetti trasformarono l’idea verticale di struttura residenziale del loro mentore Le Corbusier, in un concetto abitativo orizzontale inserito in un fitto bosco e su un leggero pendio. Le caratteristiche erano le stesse: qualità spaziali incredibili, dotazione di servizi comuni per favorire i contatti umani, spazi privati per garantire l’intimità personale e soprattutto l’elegante uso del calcestruzzo.
Il “beton” fu un materiale che l’Atelier 5 continuò a usare in altre opere perché in fin dei conti per loro, il composto naturale di acqua, sabbia e cemento, era assimilabile a una pietra e come tale non era in contrasto con la natura; anzi, garantiva una maggiore espressività e una definizione esagerata nei dettagli.
L’altro dato inconfutabile che ci viene in mente, guardando questo intervento, è quello legato alla qualità della vita. Il centro con le sue stradine, le piazze, i servizi in comune e il bosco circostante, offriva infinite e svariate possibilità di muoversi in spazi non totalmente strutturati; questo garantiva l’estensione della fantasia, l’aumento dell’istinto di aggregazione, il rispetto e la tolleranza.
Oggi siamo alle prese con il problema delle occupazioni: pezzi di società si riappropriano, per necessità, di fabbricati interi. Ritrovano in situazioni disperate quel senso di comunità e di partecipazione che cinquant’anni fa qualche bravo Architetto tentava di pianificare.
#PRESSTLETTER#CRONACHE E STORIA – AGOSTO 1963
Panorama romano.
Mi hanno sempre colpito, nello squallido panorama dell’edilizia speculativa romana degli anni’60, quelle “fabbriche” che diversificandosi da una tipologia abusata, hanno indicato alla collettività, quel percorso ideale lungo il quale ricondurre gli architetti smarriti nell’enclave dei “palazzinari”.
Mi tornano in mente le palazzine di Luccichenti, di Pellegrin, di Di Castro, dei Passarelli e la casa di Via Aldrovandi opera degli Architetti de’Rossi, Rampelli e Baliva, pubblicata nel fascicolo di agosto.
In una posizione privilegiata, che si affacciava su Valle Giulia e Villa Borghese, i progettisti riuscirono a sostituire un vecchio villino con un edificio di pari cubatura; rinunciando alla possibilità di speculare, costruendo estensivamente, riuscirono anche nell’intento di conservare il magnifico giardino e le rare sistemazione arboree esistenti.
Decisero di lasciare anche la parte basamentale del vecchio villino con il doppio scalone e la fontana centrale.
Ne risultò un “tipo” edilizio nuovo nel panorama romano, una costruzione con regole proprie e basate sull’espressione di pochi materiali quali: le grandi travi in cemento armato sagomato che denunciavano l’andamento spezzato del perimetro, i mattoni pieni che diventavano muro, le finestre a sbalzo che si evolvevano da mero buco parietale a elemento composito e le logge che erano lo specchio delle finestre d’angolo aperte sullo splendido paesaggio.
A tale rigore d’impianto si contrapponevano le opere in ferro, delle balaustre e ringhiere dei balconi, unico elemento artigianale, che arricchendo la composizione, faceva vibrare la facciata.
Oggi, girando intorno alla palazzina, si può apprezzare lo sforzo dei progettisti di comporre il volume in maniera tale da non determinare un prospetto principale e altri secondari.
Questo continuo movimento è, a mio modo di vedere, la differenza tra i palazzi scialbi e i palazzi originali.